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In modo simile a quanto era avvenuto a partire dalla metà degli anni ’70 in Spagna e Portogallo (1974-76) come pure in Brasile (1978-83), sul finire degli anni ’80 la classe operaia coreana distrusse le fondamenta di una dittatura militare che durava da decenni per mezzo di scioperi di massa notevoli che si svolsero negli anni 1987-1990. L’esito degli scioperi fu la creazione, in breve (1990-1994), di sindacati democratici di orientamento radicale e l’aumento generale del livello dei salari. Ma, come avvenne in altre situazioni, la classe lavoratrice fu confinata nel ruolo di ariete che apriva la strada ad un’agenda politica “democratica” che presto abbracciò la globalizzazione ed i mantra neoliberisti del libero mercato. Infatti, anche prima dell’ondata di scioperi ma soprattutto dopo, il capitale coreano stava già effettuando investimenti all’estero mentre spingeva, all’interno dei confini del paese, in direzione di una politica economica neoliberista di austerità. Negli anni 1997-1998 la crisi finanziaria asiatica costrinse la Corea ad accettare la tutela del FMI ed accelerò fortemente la precarizzazione della classe lavoratrice coreana, cosa che fu la principale risposta capitalista alle conquiste degli ultimi anni ’80. Oggi almeno il 60% della forza lavoro è precarizzata nel modo più brutale, soggetta a licenziamenti improvvisi e con salari e benefit ridotti alla metà o ad ancor meno di quelli goduti dal 10% della forza lavoro che può essere definita come composta da “lavoratori a tempo indeterminato”. Le strutture burocratiche residue dei sindacati democratici radicali dei primi anni ’90 sono ora definiti in modo beffardo come organizzazioni corporative dell’elite della classe lavoratrice, e si verificano molte lotte e contrasti contro il capitale ma anche tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari.

 Parte prima: lo sfondo storico.

L’ondata di scioperi, che inizia nel giugno del 1987 e che continua con modalità significative fino al 1990 e che viene definita in Corea come la Grande Lotta Operaia (Nodonja Taettujaeng), viene considerata, insieme con la Solidarnosc polacca (1980-81), con i consigli dei lavoratori iraniani del 1979-1981 e con l’ondata di scioperi in Brasile del 1978-1983, come uno dei principali episodi della lotta di classe degli anni ’80. Tale ondata di scioperi distrusse le fondamenta della dittatura che quasi ininterrottamente durava dalla fine della guerra di Corea, portò a notevoli incrementi salariali per vasti settori della classe lavoratrice coreana e portò in breve (dal 1990 al 1994) alla nascita di sindacati democratici radicali organizzati nel National Congress of Trade Unions (ChoNoHyop), impegnati, almeno a parole, in una lotta anticapitalista.

Ma subito dopo il trionfo di questa ondata di scioperi le conquiste ottenute furono messe seriamente in discussione. Il ChoNoHyop fu distrutto dalla repressione governativa diretta contro i suoi migliori militanti e grazie al sostegno governativo agli attivisti più conservatori nell’azione della creazione della Korean Confederation of Trade Unions (Minju Nochong o KCTU), nata nel 1995; nel dicembre del 1996 il governo coreano tentò di far passare a colpi di maggioranza una legge per la flessibilizzazione del lavoro che la KCTU contrastò timidamente nel corso dello sciopero generale del gennaio 1997. Nell’autunno del 1997 il tracollo finanziario asiatico portò la Corea del Sud sotto la tutela del FMI in cambio di un’operazione di salvataggio del valore di 57 miliardi di dollari, mentre lo stesso FMI chiedeva esplicitamente la flessibilizzazione della forza lavoro e forti riduzioni di personale in quanto parte dei programmi di ristrutturazione da esso imposti. Nel dicembre del 1997, Kim Dae Jong, che faceva parte da molto tempo dell’opposizione democratica, venne eletto presidente della Corea del Sud e, nel febbraio del 1998, portò la KCTU allo “storico accordo” con il quale, in cambio di una sua piena legalizzazione, il sindacato accettava centinaia di migliaia di licenziamenti e ridimensionamenti aziendali in obbedienza ai dettami del FMI.

Tanto per far bella mostra il governo di Kim Dae Jong istituì inoltre nel 1998 una Commissione Tripartita composta, in base ai dettami corporativisti, da rappresentanti dello stato, del capitale e dei lavoratori; commissione insignificante che agì, naturalmente, solo nell’interesse dello stato e del capitale.

A dispetto di un tale quadro spiacevole e di una serie quasi infinita di arretramenti, la classe operaia coreana è stata domata solo un poco alla volta, dopo scioperi lunghi e duri, ed eventi recenti dimostrano che la sua combattività è lungi dall’essere annullata.

Oggi, venti anni dopo la Grande Lotta Operaia del 1987, la forza lavoro coreana è giunta ad una situazione tale da poter essere definita come il modello principale nel mondo, o almeno sicuramente tra i paesi industriali più avanzati, di flessibilizzazione capitalista. All’incirca il 10% della forza lavoro coreana è organizzato nei sindacati della KCTU avendo posti di lavoro e salari stabili, mentre un altro 60% è precarizzato, esternalizzato, sottodimensionato. Alla Hyundai Motor Company, per esempio, uno dei bastioni della militanza operaia negli anni 1987-90, operai a posto fisso ed operai precari lavorano gli uni accanto agli altri, svolgendo esattamente gli stessi compiti, ma con i precari che guadagnano il 50% del salario degli operai a posto fisso (questi ultimi guadagnano tra i 50000 ed i 60000 dollari all’anno, più i bonus e gli straordinari). La KCTU è molto odiata dai precari in quanto portavoce corporativa dei lavoratori a posto fisso e ben pagati, i quali ultimi, da parte loro, hanno persino assalito i precari quando scioperavano in modo illegale (come capitò, per esempio, nell’agosto del 2007 alla Kia Motor Company). Nelle recenti elezioni (dicembre 2007) un gran numero di operai ha votato per Lee Myoung Back, candidato alla presidenza per il partito di estrema destra One Nation (Hanaratang), ex amministratore delegato della Hyundai e sindaco di Seul, nella vana speranza di un ritorno ad un congiuntura economica espansiva del genere di quella degli anni ’70 ed ’80.

Questo articolo si occupa appunto di come la classe lavoratrice coreana sia giunta, in appena una ventina d’anni, dalla lotta d’attacco e dalla vittoria fino alla attuale precarizzazione e sconfitta.

  Parte seconda: la democrazia fa digerire l’austerità; la lotta di classe in un regime a sviluppo autoritario.

Dobbiamo collocare l’esperienza della classe operaia coreana nel più ampio ciclo di transizione dalla dittatura alla democrazia (borghese), iniziato in Spagna e Portogallo (1974-1976) e proseguito in paesi simili come Polonia e Brasile. Possiamo inoltre notare che, dopo le “transizioni” iberiche, le esplosioni seguenti ebbero luogo durante un periodo di arretramento e sconfitta per la classe lavoratrice nordamericana ed europea.

Certo le transizioni di cui sopra ebbero luogo nel contesto generale di crisi economica mondiale che seguì la fine del boom del secondo dopoguerra. Nella Penisola Iberica, in Polonia ed in Brasile, come in Corea del Sud, un intervento più significativo della classe lavoratrice nella politica e nella società fu preceduto da un lungo periodo di forte “crescita economica” (di qualità molto variabile) e di forte repressione dell’attività autonoma dei lavoratori, come pure della loro organizzazione e dei loro salari. In ogni caso, le lotte operaie furono centrali per la battaglia della più vasta “opposizione democratica” contro la dittatura, ed in ogni caso, la più vasta “opposizione democratica” prese il potere e pose in atto (sempre in stretta collaborazione con il capitale internazionale) programmi economici di estrema austerità che divisero il movimento dei lavoratori. Si potrebbe concludere che “la democrazia serve a far digerire” l’austerità, e questa è davvero la mia conclusione.

Il caso coreano, naturalmente, ha molte caratteristiche che non devono essere cancellate in qualsivoglia raffronto di carattere generale.

Nel 1960 la Corea veniva considerata un “rottame” economico, alla stessa stregua, per ricchezza pro capite, di India e Tanzania. Nel 1996, con grandi squilli di tromba, fu accolta nell’OCSE in quanto “paese con un sistema economico avanzato” e solo un anno più tardi (come già segnalato) cadde sotto il controllo del FMI.

Ciononostante la Corea, una delle “tigri” asiatiche insieme a Taiwan, Hong Kong e Singapore, emerse nel periodo 1960-1997 come uno tra pochi casi di successo, a fronte di centinaia di fallimenti e di peggioramenti di paesi del Terzo Mondo destinatari di “aiuti” occidentali e della tutela del FMI e della Banca Mondiale.

Che cosa rese differente la Corea? Possiamo subito citare il suo particolare status (come le altre tigri) di “bella vetrina” avanposto dell’imperialismo americano, per cui il suo successo economico era un contrappeso propagandistico nei confronti dei (cosiddetti) regimi socialisti presenti nelle immediate vicinanze, vale a dire Corea del Nord, Cina ed Unione Sovietica. Gli Stati Uniti, con decine di migliaia di soldati in Corea del Sud dopo la fine della guerra di Corea, tollerarono che vi fossero lì politiche di sviluppo di tipo statalista che di solito impedivano o sabotavano nel resto dei paesi sottosviluppati.

In secondo luogo, la Corea del Sud, come Taiwan, era diversa da quasi tutti gli altri paesi del Terzo Mondo in forza della riforma agraria che aveva eliminato definitivamente l’aristocrazia “yangban” precapitalista tra il 1945 e il 1950. (Questa riforma ebbe luogo sotto la forte pressione della riforma agraria attuata nel nord, che venne estesa al sud quando l’esercito di Kim Il Sung occupò per breve tempo quasi interamente la penisola nei primi mesi della guerra).

In terzo luogo, la Corea del Sud, paese povero di risorse naturali e prostrato dai combattimenti degli anni tra il 1950 ed il 1953, è il paese per eccellenza del “capitale umano”, nel quale vi è una grande enfasi, per non dire una vera mania, riguardo all’istruzione. Persino nel 1960 il 90% degli adulti era alfabetizzato, cosa che difficilmente si poteva riscontrare in paesi del Terzo Mondo in qualche modo raffrontabili alla Corea.

Il paese era spezzato in due nel 1945 al 38° parallelo ad opera delle truppe di occupazione degli USA e dell’Unione Sovietica. La sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale pose fine a 35 anni di dominio coloniale giapponese, periodo che fu un momento importante nel gettare le fondamenta di una moderna economia capitalistica (il vero lascito di questo periodo è oggetto di discussione fino ad oggi).

Quando gli occupanti giapponesi fuggirono nell’agosto del 1945, uno o due milioni di lavoratori nella zona sotto il controllo statunitense costituirono i consigli operai (Changpyong o il Consiglio degli Operai Nazionali in Choson) nelle fabbriche abbandonate, e ciò accadde non tanto per uno specifico impegno in direzione dell’autorganizzazione operaia (la sinistra coreana era in misura preponderante stalinista), quanto per la pura e semplice necessità di produrre i beni di prima necessità per la vita quotidiana. Il sistema dei consigli operai fu puntualmente stroncato nel dicembre 1945 dalle autorità d’occupazione statunitensi.

Come nei paesi europei occupati dai nazisti tedeschi nei quali le borghesie locali avevano collaborato con gli stessi occupanti, l’aristocrazia yangban e la classe dei piccoli capitalisti coreani erano politicamente e socialmente screditati. Adoperando tali forze così variegate gli occupanti statunitensi dovevano raffazzonare un qualche governo che stesse in piedi e che fosse in grado di sconfiggere gli operai ed i contadini che si stavano risvegliando, molti dei quali erano fortemente favorevoli a Kim Il Sung ed alle sue truppe guerrigliere e comunque sostenitori di un cambiamento radicale. Gli USA si appigliarono alla figura di Rhee Syngman, e sovrintesero e parteciparono allo spietato annientamento della sinistra nella zona sud durante i cinque anni di guerra partigiana e di massacri che precedettero la guerra con la Corea del Nord scoppiata nel giugno del 1950. Quanto rimasto nel 1950 di una qualunque autentica sinistra venne eliminato fisicamente nel corso degli anni di guerra o dovette rifugiarsi al nord (dove molti militanti di sinistra furono pure eliminati). Nel sud si ruppe completamente la continuità con la sinistra coreana del periodo che precedette il 1945, e ciò giocò un ruolo non piccolo nel risveglio che cominciò negli anni ’70.

Rhee Syngman governò una Corea del Sud per lo più inetta e stagnante dal punto di vista economico fino al 1960, sostenuto in tutto dagli aiuti militari americani. Egli venne infine rovesciato in seguito a rivolte studentesche nel 1960, e la Corea del Sud godette di un breve periodo di apertura democratica. Questa apertura fu richiusa dal colpo di Stato di Park Chung Hee nel 1961, quando iniziò una nuova era.

Park Chung Hee non fu, o almeno non fu soltanto, il tipico dittatore marionetta del secondo dopoguerra manovrato dagli americani. Si ritiene comunemente (sebbene per quanto ne sappia io non sia venuta alla luce nessuna prova definitiva) che sia stato un comunista fin dal 1943, e nel 1948 venne arrestato in quanto partecipante ad un gruppo di studio comunista composto da giovani ufficiali. Quando egli prese il potere nel 1961, gli USA esitarono inizialmente a riconoscerlo e parecchie volte durante il suo governo dittatoriale (1961-1979) diffidarono dei suoi impulsi nazionalisti (come per esempio riguardo al suo programma relativo ad una gestione indipendente del nucleare) e dei suoi occasionali amoreggiamenti diplomatici con la Corea del Nord.

Inoltre Park aveva frequentato durante la Seconda Guerra Mondiale un’accademia militare giapponese ed era molto innamorato del modello di sviluppo economico giapponese, che egli tentò subito di emulare, con un certo successo, in Corea del Sud. Dal momento che il modello giapponese era stato a sua volta copiato dal modello prussiano della fine del diciannovesimo secolo, la Corea del Sud acquisì una sorta di patina “germanica” che viene generalmente nascosta al di sotto del lascito giapponese che è piuttosto controverso (e spesso pure occultato). La costituzione di Park, per esempio, venne scritta da un giurista coreano che aveva studiato diritto in Germania negli anni ’50 e che si era innamorato delle teorie di Carl Schmitt; da ciò il fatto che lo “stato di emergenza” divenne la pietra angolare dell’ideologia di Park. Ahn Ho Sang, che era stato apertamente filonazista negli anni ’30 e che aveva studiato in Germania ai tempi di Hitler, scrisse il manuale di storia usato nelle scuole superiori nel dopoguerra fondandolo su una sorta di mitografia nazionalista ereditata dal populismo romantico tedesco.

Cosa ancor più importante, Park usò la mano pesante contro i capitalisti parassitari del periodo di Rhee e li eliminò oppure li costrinse con la forza a rivolgersi ad investimenti produttivi. Egli attuò nelle campagne la politica del “Nuovo Villaggio” (Se Maul), che aveva lo scopo di inserire pienamente l’agricoltura nel circuito capitalistico e di costringere larga parte della popolazione rurale a spostarsi nelle città e ad impiegarsi nelle fabbriche. Il regime esercitò un fortissimo controllo sui lavoratori per mezzo della Federation of Korean Trade Unions (FKTU), tipica organizzazione anticomunista da guerra fredda, rendendo certo non rari i turni di lavoro strutturati su sette giorni alla settimana e su 12 ore al giorno, ed imponendo tutto ciò, se necessario, con il terrore poliziesco e con la tortura. Nell’era di Park assunsero una posizione di assoluta preponderanza i cosiddetti chaebol (i grandi gruppi), sotto il controllo statale del credito e con la selezione delle industrie considerate come “campione nazionale”, pratica che più tardi, quando l’economia coreana finì nei guai negli anni ’90, venne denunciata come espressione di un “capitalismo da compari”.

La Corea, come altre tigri e diversamente dalla maggior parte dei paesi del Terzo Mondo in quei tempi, si sviluppò a suo modo, con una strategia orientata verso le esportazioni, risalendo la “catena produttiva” internazionale, a partire dall’industria tessile e da altre industrie leggere di beni di consumo, per passare alle manifatture (auto, cantieristica navale), fino ad arrivare alle tecnologie avanzate, conquistando nel mondo dagli anni ’90 mercati importanti della componentistica per i computer.

Il successo economico dei decenni di Park Chung Hee, ovviamente, non può essere separato dai suoi metodi dittatoriali e dalla congiuntura economica di quell’epoca (due realtà oggi ampiamente trascurate nei dibattiti riguardanti i crescenti problemi economici della Corea del Sud; la vittoria del dicembre 2007 dell’estrema destra nelle elezioni presidenziali spinse a vedere l’epoca di Park in modo nostalgico e roseo). Oltre ai benefici derivanti dal suo alto profilo nella strategia geopolitica statunitense della Guerra Fredda, l’economia sudcoreana cavalcò pure l’onda lunga degli investimenti industriali che, a cominciare dal 1965 circa, iniziarono a cercare degli sbocchi al di fuori di Nord America ed Europa. Anche i redditi guadagnati dai coreani all’estero giocarono un ruolo significativo, quando i soldati coreani portarono in patria milioni di dollari guadagnati dalla loro partecipazione alla guerra del Vietnam e decine di migliaia di lavoratori sudcoreani andarono in Medio Oriente per lavorare in progetti di costruzione nel corso del boom petrolifero successivo al 1973.

Data la centralità della manifattura leggera nel periodo del decollo degli anni ’60, la rinascita del movimento operaio coreano iniziò non per caso nelle industrie tessili, e pure non per caso dalle operaie (dal momento che la forza lavoro era costituita in modo preponderante da giovani donne).

Il movimento operaio coreano contemporaneo segna il suo inizio simbolico a partire dal 13 novembre 1970, quando Jeon Tae Il, un giovane operaio tessile, si immolò nel corso di una piccola manifestazione in uno dei distretti di Seul dove erano presenti aziende che sfruttavano i dipendenti. Jeon aveva prima perseguito ogni strada legale per difendere il personale di tali aziende sfruttatrici, ma senza successo.

Il movimento degli anni ’70 fu caratterizzato da un numero crescente di scioperi condotti da operaie tessili nei modi più duri. Le richieste erano nel modo più semplice e chiaro rivolte contro gli orari di lavoro disumani, i bassi salari, i capi autoritari e la vita nei dormitori imposta alle donne, che erano di solito reclutate direttamente nelle campagne e nelle baraccopoli che spuntavano attorno a Seul e ad altre città. Gli scioperi venivano contrastati quasi senza eccezione con una brutale repressione ad opera dei guardiani delle fabbriche, della polizia, dei soldati e di criminali reclutati nei bassifondi coreani. La lotta per un sindacato democratico alla Dongil Textile Company di Inchon tra il 1972 ed il 1976 fu a questo riguardo esemplare.

Gli anni ’70 videro pure gli inizi dell’impegno nel movimento operaio di gruppi religiosi (per lo più cristiani) e di studenti radicali (conosciuti, questi ultimi, come “hakchul” o “provenienti dalle università”). I gruppi religiosi erano ispirati dalla teologia della liberazione cattolica e da dottrine sociali simili presenti in campo protestante. I gruppi religiosi e gli studenti crearono scuole serali per gli operai tessili nelle quali si insegnavano la cultura generale di base ed elementi di amministrazone nonché i principali diritti dei lavoratori.

Gli anni ’70, infine, videro la nascita del movimento minjung (della cultura popolare), strettamente collegato al movimento religioso ed al primo hackchul. Il movimento minjung, formato per lo più da elementi della classe media, si infilò nella cultura popolare coreana, scavando velocemente sotto l’edificio di una modernizzazione a tappe forzate e tentando di utilizzarla nella creazione di una “controcultura conflittuale”, usando la musica e la danza delle tradizioni coreane sciamaniche e rurali, cose che ebbero successo nel consolidamento della determinazione di gruppo nella lotta contro una situazione repressiva davvero pesante. Fino ad oggi, ricordando pure gli americani IWW, il canto resta una parte importante del movimento operaio coreano, che offre dimostrazioni e scioperi nel corso dei quali si cantano dozzine di canzoni che tutti sanno a memoria.

Il movimento coreano degli anni ’70, sia esso operaio o hackchul o minjung o religioso, restava saldamente inserito nella cornice dell’ideologia liberaldemocratica e tendeva a guardare con simpatia agli Stati Uniti come ad una forza che potesse pilotare la dittatura coreana verso la democrazia. Tutto questo cambiò con la rivolta di Kwangju ed il conseguente massacro del maggio del 1980.

La Corea è stata storicamente un paese di forti identità regionali, identità che si sono mantenute nell’era del capitalismo moderno. La provincia di Cholla, nel sudovest, è stata tradizionalmente una regione agricola arretrata. Park Chung Hee, d’altro canto, era originario della provincia sudorientale di Gwanjeon, e le sue politiche industriali erano rivolte innanzitutto lì, favorendo la crescita dei suoi centri principali di Ulsan, Pohang e Pusan. Gli abitanti della provincia di Cholla si risentivano per tale abbandono.

Nel 1979 dimostrazioni di massa dilagavano per tutto il paese chiedendo democrazia. Gli operai stavano in prima linea in molte di queste dimostrazioni. Nell’ottobre di quell’anno Park Chung Hee fu assassinato dal capo dei servizi segreti coreani, presumibilmente dopo un litigio riguardo al modo di contenere e di reprimere le dimostrazioni.

  Parte terza: la rivolta di Kwangju e la svolta verso il “marxismo-leninismo”.

Ebbe luogo una breve apertura democratica, simile a quella del 1960, ma il successore di Park fu un altro dittatore militare, Chun Doo Hwan. Nel maggio del 1980 l’esercito aprì il fuoco su una dimostrazione a Kwangju, la città più grande della provincia di Cholla. Ne conseguì una rivolta nel corso della quale la popolazione di Kwangju prese il controllo della città, si armò con le armi prese in un arsenale militare e contrastò per giorni le forze della repressione, compresa un’unità d’elite spostata dal confine con la Corea del Nord. Si ritiene che il numero complessivo di morti a Kwangju da entrambe le parti ammonti a circa 2000 (la maggior parte dei quali, ovviamente, causati dalla repressione della rivolta).

Kwangju venne isolata ed una censura fortissima evitò che trapelasse qualsiasi brutta notizia. (La draconiana legge sulla sicurezza nazionale, che risale al 1948 e che è ancora in vigore, definisce come grave delitto, pure negli anni ’90, la discussione pubblica della rivolta di Kwangju). Si ritiene ad ogni modo comunemente che il governo statunitense, sofferente per il recente spodestamento dello Scià in Iran nel 1979, nel mezzo della crisi degli ostaggi a Teheran e non volendo più che ci fossero movimenti radicali di massa contro dittatori filostatunitensi, sia stato fortemente coinvolto nella decisione di usare la forza (opinione certo rafforzata dalla più recente declassificazione di documenti relativi a comunicazioni tra i governi nel corso della crisi in questione).

Da allora in poi il movimento coreano si allontanò velocemente dalle ideologie liberaldemocratiche e religiose negli anni ’70 in direzione di un orientamento più radicale e rivoluzionario, essenzialmente “marxista-leninista”.

Questa svolta ideologica dimostra l’importanza dell’intero primo periodo: la discontinuità pressoché totale con la sinistra che emerse dopo la sconfitta giapponese del 1945 e che fu distrutta dalla repressione governativa e delle forze armate statunitensi tra il 1945 ed il 1953; i decenni di dittatura successivi alla guerra di Corea che marchiarono ogni più mite critica sociale come ispirata dalla Corea del Nord; l’isolamento della Corea del Sud dai fermenti mondiali degli anni ’60 e pure da quelli successivi. (Quando gli studenti coreani si unirono ai gruppi di opposizione clandestini negli anni ’70 ed ’80, una delle prime cose fu spesso di imparare il giapponese, allo scopo di leggere tutti i testi politici, in particolare quelli marxisti, che non potevano essere pubblicati in Corea). Così in Corea del Sud furono sconosciuti, o visti come riflessi da uno specchio deformante, l’erosione pluridecennale dello stalinismo come fu vissuta in Europa e negli USA, l’impatto del 1968 e la nuova sinistra occidentale, le critiche radicali del leninismo, la rinascita di Hegel e l’impatto della diffusione del Marx del decennio 1840. (Nei primi anni ’80 fu scoperto un gruppo di studio clandestino creato per leggere in tedesco gli scritti estetici di Lukacs e di Hegel; i suoi membri furono condannati a sei mesi di prigione). Di conseguenza la radicalizzazione del movimento coreano dopo i fatti di Kwangju procedette quasi sempre lungo linee staliniste, marxiste-leniniste, filosovietiche, filocinesi, filonordcoreane, e comunque in ogni caso staliniste. Trotsky fu poco conosciuto fino ai tardi anni ’80, per non dire nulla delle critiche da sinistra a Trotsky.

Alcune delle fazioni marxiste-leniniste che emersero negli anni ’80 furono il punto di partenza delle due tendenze principali dell’attuale movimento organizzato coreano (in ambedue le summenzionate organizzazioni, la KCTU ed il partito democratico coreano del lavoro o KDLP). Tali fazioni sono la filonordcoreana “Liberazione Nazionale” (NL o juche-ists, così definita dalla dottrina nordcoreana della “juche”, cioè della fiducia in se stessi) e la fazione minoritaria ma piuttosto consistente della “Democrazia del Popolo” (PD, più socialdemocratica). Nella campagna per le elezioni presidenziali del dicembre 2007 i juche-ists presero il pieno controllo dell’apparato del KDLP ed espulsero alcuni membri della corrente PD. (Inoltre è importante considerare come entrambe le fazioni NL e PD hanno la loro base per lo più nei sindacati dei colletti bianchi, come per esempio bancari, insegnanti ed altri impiegati pubblici, mentre gli operai sono per lo più indifferenti ad entrambe le fazioni. Sotto la guida NL i voti presi dal KDLP nelle elezioni del dicembre 2007 calarono dappertutto, in confronto con il 2002, dal 5 al 3%, e ad Ulsan, il bastione della classe operaia coreana, dall’11 all’8%).

Il nazionalismo in Corea è endemico, pure nel movimento operaio. I motivi di ciò sono da ricercare nei secoli di dominazione straniera (cinese, poi giapponese, poi americana), nella divisione del paese successiva al 1945 e nella posizione geopolitica della Corea, proprio al crocevia delle sfere d’influenza cinese, giapponese, russa ed americana. Il possesso della penisola coreana, o l’egemonia ivi esercitata, fu il premio per intrusioni straniere di secoli fa, e più recentemente nella guerra tra Cina e Giappone del 1895, nella guerra tra Russia e Giappone del 1904-1905, ed ultimamente nella guerra di Corea. “Quando le balene lottano tra loro, i pesciolini corrono al riparo” è un vecchio proverbio coreano che esprime tale realtà. Il tentativo giapponese, durato per i 35 anni (1910-1945) di dominio coloniale, di eliminare completamente la cultura coreana diede come risultato il rafforzamento ulteriore di tale spinta nazionalista. Completano infine il quadro i miti di una omogeneità etnica, sostenuti da libri scolastici di storia fondati sul mito populista o più recentemente da sceneggiati televisivi di argomento storico riguardanti le epoche della grandezza coreana. (Una diversa versione, persino più virulenta, di tale nazionalismo è propagandata nella Corea del Nord). In questo contesto, persino gli eventi sportivi, come per esempio le Olimpiadi di Seul del 1988 o i successi della squadra coreana ai mondiali di calcio del 2002, diventano occasioni in cui forgiare l’identità nazionale.

Per la medesime ragioni geopolitiche, ogni emergenza di una seria lotta di classe nella Corea del Sud assume subito una dimensione internazionale. Il nazionalismo non venne quindi messo in discussione nella ripresa della sinistra degli anni ’70 e ’80. Quando, nel corso degli anni ’80, una versione del marxismo stalinista emarginò l’orientamento degli attivisti liberaldemocratici del periodo che precedette Kwangju, le acquisizioni principali furono alcune varianti della dottrina leninista dell’imperialismo, della dottrina del capitale monopolistico, della dottrina coloniale, rese popolari da gruppi marxisti-leninisti e da influenti riviste clandestine.

Gli anni ’80 videro pure l’accelerazione del movimento hakchul nelle fabbriche, tanto diffuso quanto ogni altro simile movimento occidentale “di svolta verso la classe operaia” posto in atto dalla classe media post ’68. Nel momento migliore di tale movimento migliaia di ex studenti si sono impiegati nelle fabbriche e hanno talvolta guidato importanti scioperi.

Il movimento coreano dei tardi anni ’80 considerava, cosa comprensibile, la Corea del Sud come un paese “periferico” del sistema imperiale americano, dal quale ci si sarebbe potuti liberare solo con il socialismo (inteso in senso stalinista) e con la riunificazione nazionale. Ci fu quindi una certa tendenza a sottostimare la portata dello sviluppo industriale coreano e soprattutto l’elasticità presente nel sistema che avrebbe reso possibile, dopo la rivolta operaia degli anni 1987-1990, un aumento significativo dei salari entro una cornice capitalistica. Tali teorie erano rafforzate dal fatto che la Corea del Sud aveva raggiunto e sorpassato dal punto di vista economico la Corea del Nord soltanto attorno al 1980.

La presenza contemporanea di tutti questi elementi fece sì che il crollo dell’Unione Sovietica del 1991, che coincise con il calo delle lotte operaie dopo il 1990, fece pagare ai militanti coreani un tributo psicologico molto più pesante di quello sopportato in qualunque altro posto del campo occidentale, dove il prestigio dell’Unione Sovietica era stato ridimensionato almeno dal 1956 e sicuramente dal 1968. L’umore era già diventato tetro nella primavera del 1991, quando uno studente di Seul fu picchiato a morte dalla polizia ed i candidati della sinistra democratica furono annichiliti nelle elezioni municipali del giugno 1991, quasi a sottolineare una sensazione di disfattismo e di vanità dopo anni di mobilitazione e di lotte. Si potrebbe aggiungere che l’economia coreana, in una fase di boom nel periodo 1968-1988 e nella prima fase della Grande Lotta Operaia, aveva incontrato nuovi problemi a partire dal 1990, problemi dai quali non si è mai più completamente ripresa.

Proprio come avvenne in modo molto simile in occidente dopo la fine degli anni ’70, migliaia di attivisti cessarono di mobilitarsi e si ritirarono a vita privata, si impegnarono in carriere da classe media o, in ambiente universitario, cedettero al fascino del postmodernismo.

 Parte quarta: la politica nazionale e la Grande Lotta Operaia, 1987-1990.

Appare pure indispensabile un esame dello sfondo politico dell’andamento della lotta di classe. A cominciare dagli anni ’80, le lotte operaie per costituire sindacati democratici si spostarono (seguendo l’andamento della stessa economia coreana) dall’industria leggera a quella pesante. La dittatura militare di Chun Doo Hwan, che succedette a Park Chung Hee, fu costretta, alla metà degli anni ’80, ad allentare i controlli, sotto la crescente pressione esercitata da parte della più ampia opposizione democratica nel periodo di preparazione dei Giochi Panasiatici (1986) e delle Olimpiadi di Seul (1988). In particolare, la “dichiarazione di democratizzazione” del giugno 1987, effettuata in risposta alla minaccia che la classe operaia si sarebbe unita alle proteste a sostegno della democrazia, fu l’immediato detonatore della Grande Lotta Operaia di quell’estate. Per la prima volta il movimento si volse dalla regione di Seul-Inchon verso le nuove zone industriali meridionali di Ulsan, Masan e Changwon. Vi furono in tutto nel 1987 più di 3000 scioperi, con i quali si riuscì ad ottenere un incremento della sindacalizzazione, un aumento dei salari tra il 25 ed il 30% e l’abolizione dell’odiata disciplina militare di fabbrica (che imponeva quanto dovessero essere lunghi i capelli ed esercizi mattutini). In modo particolare Ulsan, la città della Hyundai, vide una massiccia mobilitazione di piazza e disordini che durarono fino al 1990.

Lo sciopero dei 128 giorni (dicembre 1988 – aprile 1989) alla Hyundai Heavy Industries (HHI) culminò in un attacco militare coordinato contro i cantieri navali occupati della Hyundai condotto da 9000 tra soldati e poliziotti, attacco proveniente dal mare, dall’aria e da terra. A questo seguirono disordini di piazza durati una decina di giorni (che coinvolsero non solo gli operai, ma anche le loro mogli ed i loro figli) che si svolsero nei sobborghi operai di Ulsan. Queste lotte furono a loro volta seguite nel 1990 dallo sciopero di Goliat, di nuovo alla HHI, che si concluse con una dura sconfitta. (La Hyundai, in risposta a tali lotte, fece costruire dei casermoni residenziali per gli operai).

 Parte quinta: comincia il declino e la ritirata, 1990-1997.

Il declino delle lotte di massa offensive del periodo 1987-1990, e la generale atmosfera di sconfitta che seguì, aprì una nuova fase per le organizzazioni dei lavoratori coreani. Gli aumenti dei salari conseguiti alla fine degli anni ’80 rinforzarono in breve l’illusione della possibilità di una convivenza tra capitale e lavoro, e quindi le correnti riformiste. In particolare, dentro il National Congress of Trade Unions (ChoNoHyop), l’ala destra apertamente riformista (filonordcoreana) costituita dalla fazione di Liberazione Nazionale (NL) iniziò ad avere il sopravvento nei confronti della fazione radicale indebolita. (Il nome coreano della fazione NL, Kukminpa, significa letteralmente “Lavoro insieme con la nazione”). Questa fazione fu sempre orientata verso burocrati e politici. Come già precedentemente ricordato, una politica governativa di repressione mirata contro i migliori militanti della NCTU e di sostegno di coloro che erano apertamente riformisti distrusse la NCTU entro il 1995 e portò al raggruppamento nella KCTU sotto la guida dell’ala destra. (Invero, al momento della vera e propria fondazione della NCTU nel gennaio 1990, la maggior parte dei suoi dirigenti era in prigione o alla macchia). La lunga esperienza della dittatura e del nepotismo fece sì che molti lavoratori simpatizzassero inizialmente con la borghesia ed il neoliberismo. Comunque Ulsan restò in gran fermento, e nel giugno 1991, quando Park Chang Su, un capo sindacale, fu ucciso in prigione, 20000 operai della HHI e 30000 della HMC attaccarono il municipio di Ulsan, ed i disordini durarono in definitiva per un mese.

Nel 1992 la Corea del Sud entrò nell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), proprio nello stesso momento in cui i capitalisti si stavano riorganizzando per dare un giro di vite ai danni dei salari. In questo periodo i lavoratori pubblici con salari bassi iniziarono ad organizzarsi, con alla testa i lavoratori della Korea Telcom (KT), anche se le loro lotte tendevano ad essere per lo più centrate sulla questione salariale, sebbene collegate ad una certa spinta in direzione della democrazia sul posto di lavoro.

Negli anni 1993-1994 nel movimento imperversò il dibattito sulla strada da percorrere, comprendendo un bisogno sentito di scioperi politici. Le correnti più radicali volevano trasformare i sindacati da organizzazioni centrate sul posto di lavoro (la forma dominante per i sindacati coreani fino a quel momento) in organizzazioni di settore e di categoria, così da creare un’organizzazione comune. Appena la NCTU declinò ulteriormente sotto le raffiche della repressione e per le macchinazioni della fazione NL, si aprì la strada per la creazione della KCTU, istituita formalmente nel novembre 1995 (sebbene non legalizzata fino al momento della crisi gestita dal FMI).

Vi furono alcuni scioperi di successo fino agli anni 1995-1996, in particolare uno sciopero nella KT, che permisero di ottenere aumenti salariali. A causa di tali scioperi i salari dei colletti blu stavano sorpassando quelli degli impiegati pubblici. Nello stesso tempo gli imprenditori coreani si allontanavano sempre di più dal modello chaebol in direzione dei vantaggi dela globalizzazione. Ambedue le parti sociali si stavano rinforzando in vista dello scontro del 1996-1997 riguardante la legge sulla flessibilizzazione del lavoro. Nell’autunno del 1996 crebbe la pressione da parte della base come pure crebbero i preparativi per uno sciopero generale. Sotto questa pressione la KCTU dovette ritirarsi dai negoziati per la creazione dell’infame Commissione Tripartita (stato-lavoro-capitale), che sarebbe stata istituita infine solo nel bel mezzo della crisi della primavera 1998. Stava crescendo il rifiuto da parte della base del gruppo dirigente NL. Una importante contromisura posta in atto dai militanti radicali fu la formazione delle “hyung-jang jujik”, cioè di organizzazioni di reparto, che cercavano di contrastare la degenerazione dei sindacati e la KCTU con un’organizzazione alternativa, non “al di fuori” dei sindacati, ma strutturando un potere ombra all’interno dei sindacati e legami “orizzontali” tra militanti di diverse organizzazioni che si opponevano alla propensione esistente verso un campanilismo d’azienda. Il periodo delle hyung-jang jujik si estese dal 1990 al 2005. In varie circostanza le hyung-jang jujik riuscirono a prendere il controllo dei sindacati principali e quindi spesso soccombettero esse stesse alla burocratizzazione; nei loro ultimi anni divennero preda di vari gruppi che cercavano una strada occulta in direzione della conquista del potere interno ai sindacati, ed infine crollarono. Ma nel loro momento migliore, in una situazione generalmente centrata su politiche meramente difensive, esse preservarono una certa continuità con la spinta radicale del periodo tra il 1987 ed il 1990.

 Parte sesta: lo sciopero generale e la crisi governata dal FMI, 1997-1998.

Appena dopo Natale, nel 1996, il governo coreano di Kim Young Sam, nel corso di una sessione parlamentare speciale con l’opposizione assente, fece passare la prima di una serie di leggi per la flessibilizzazione del lavoro con lo scopo di portare pienamente l’economia sudcoreana nell’era della “globalizzazione” e di rendere più facili per gli imprenditori le procedure di ridimensionamento aziendale, come pure l’introduzione di contratti di lavoro differenziati. Gli imprenditori, come già detto, erano stati ripetutamente e puntualmente colpiti e danneggiati dai salari cresciuti negli anni ’80, e l’economia stava di nuovo indebolendosi nel corso del 1996 con una proliferazione di fallimenti, ma questo fu il primo scontro frontale con il potere dei lavoratori di recente sconfitto.

La KCTU, sotto il controllo stretto dell’ala destra che aveva sconfitto ed aveva rimpiazzato la NCTU, sotto una forte pressione delle strutture di base convocò immediatamente uno sciopero generale, sciopero che ebbe un ampio successo. Si unì allo sciopero persino un sindacato conservatore, arnese della guerra fredda, il sindacato “giallo” FKTU. Si unirono anche i colletti bianchi e, al suo culmine, c’erano tre milioni di lavoratori in sciopero. (La legge nella sua prima stesura fu ritirata, ma nel marzo 1997 fu approvata una legge praticamente identica, senza una particolare risposta di contrasto da parte della KCTU). Ancora una volta l’esperienza storica della classe operaia coreana e la novità della flessibilizzazione resero lo sciopero più “antifascista” che antineoliberista. La KCTU fece tutto quanto in suo potere per evitare lo scontro con il governo e si adoperò nella smobilitazione laddove fu in grado di farlo. Le strutture di base, da parte loro, dimostrarono una notevole azione spontanea, come per esempio alla Hyundai ed alla Kia Motor Company. Girò la diceria che la KCTU si fosse segretamente incontrata con i capitalisti per assicurare loro che lo sciopero era sotto controllo ed in fase di esaurimento. Venne proposta la tattica inutile dello “sciopero del mercoledì”, una tattica ripetuta più volte negli ultimi anni. Lo sciopero generale si esaurì alla fine di gennaio, (come già detto) senza alcun risultato. Sulla scia dello sciopero generale venne fondato, nella primavera del 1997, il Partito Democratico Coreano del Lavoro (KDLP o Minju Nodong Tang), nel quale erano dominanti gli stessi elementi destrorsi che avevano la maggioranza nella KCTU. Il fallimento dello sciopero generale del gennaio 1997, comunque, fu a sua volta eclissato dalla devastazione dell’economia coreana nel corso del tracollo finanziario asiatico del 1997-1998.

A cominciare dalla Thailandia nel luglio 1997 con il crollo della moneta thailandese, la crisi si diffuse in modo travolgente in Asia nei mesi seguenti quando ogni paese che aveva abbracciato il “libero mercato”, e quindi aveva perso il controllo del flusso dei capitali, vide appunto una massiccia fuga di capitali fuori dai suoi confini ed il crollo del valore della propria moneta, con la Thailandia, l’Indonesia e la Corea del Sud in testa quanto a paesi maggiormente colpiti. Il won coreano perse il 40% del suo valore entro novembre 1997, quando il governo di Kim Young ottenne dal FMI aiuti per 57 miliardi di dollari. I quattro candidati alle elezioni presidenziali del dicembre 1997 furono costretti a firmare l’assenso all’accordo con il FMI, essendo questa una condizione necessaria per l’erogazione degli aiuti. Quindi Kim Dae Jong, eletto alla fine presidente della Corea dopo decenni trascorsi nella desolazione dell’opposizione democratica, dovette dedicare tutto il suo mandato alla realizzazione pratica del pacchetto draconiano di provvedimenti imposti dal FMI riguardanti ridimensionamenti d’azienda, tagli dei servizi pubblici, acquisti di industrie e di banche da parte di operatori esteri effettuati con capitale di prestito e del tutto deregolamentati, flessibilizzazione del lavoro. La democrazia in Corea, come pure in precedenza le organizzazioni dei lavoratori coreani, trionfò proprio quando l’adempimento delle sue vecchie promesse pubbliche divenne impossible e trionfò in quanto necessaria foglia di fico utile a nascondere una tale amarissima medicina. Vi fu una cascata scrosciante di fallimenti ed un picco di suicidi. Il FMI richiese inizialmente licenziamenti del 50% dei bancari (cifra poi ridimensionata al 30%) come pure cifre simili per gli impiegati pubblici. Il tasso di disoccupazione triplicò entro il 1999 e milioni di persone vennero ricacciate in condizioni di povertà.

In tale situazione Kim Dae Jong e la KCTU giocarono il loro ruolo predefinito. Come precedentemente accennato, Kim trascinò la dirigenza della KCTU negli accordi tripartiti del febbrao 1998, con la KCTU, appunto, assenziente ai massicci licenziamenti dovuti all’emergenza. Le strutture di base della KCTU si ribellarono contro una tale vile resa ed estromisero la dirigenza che aveva firmato questo accordo. Nel 1998 vi furono alcuni grandi scioperi contro i licenziamenti, come per esempio lo sciopero alla Hyundai Motor Company (HMC), ma i nuovi vertici della KCTU furono arrestati e gli scioperi si conclusero in generale con una sconfitta.

Durante la crisi gestita dal FMI furono spazzate via diverse piccole industrie, comprese quelle nelle quali erano presenti lavoratori militanti cresciuti nel corso dell’ondata di scioperi degli ultimi anni ’80 che erano precedentemente vicini alla NCTU. Per la prima volta, a causa degli effetti dell’obbedienza agli ordini del FMI, i lavoratori a termine divennero parte predominante nel complesso della forza lavoro coreana. In risposta all’imposizione della svendita di azioni della Korea Telcom ad investitori di Wall Street, per esempio, scoppiò uno sciopero. Questo sciopero fornì la prova inoppugnabile della crescente spaccatura tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori precari. Oltre a ricevere salari più elevati in cambio di una minor quantità di lavoro, i lavoratori più anziani a tempo indeterminato mancavano delle competenze informatiche possedute invece dai giovani precari ed avvertivano una crescente instabilità del loro posto di lavoro. I capi sindacali facevano i duri nelle loro dichiarazioni, ma non facevano in concreto un bel niente. Infine, sia i lavoratori a tempo indeterminato che i precari effettuavano degli scioperi, ma non negli stessi tempi. Lo sciopero alla KT finì con il licenziamento di 10000 precari.

L’accordo del febbraio 1998 tra Kim Dae Jong e la dirigenza destrorsa della KCTU in relazione a licenziamenti di massa portò ad una rivolta della base della stessa KCTU, la cui intera dirigenza fu estromessa dopo che i lavoratori militanti occuparono gli uffici della KCTU armati di spranghe.

Una nuova dirigenza di sinistra prese il controllo del sindacato e tentò di rilanciare uno sciopero generale contro la nuova legge sul lavoro in maggio, giugno e luglio, ma senza esito. La vecchia dirigenza restò trincerata nei sindacati dell’industria pesante, e si oppose all’azione dei militanti. Nel periodo tra giugno ed agosto del 1998, ebbe luogo uno sciopero di 28 giorni alla HMC, che condusse al licenziamento di 10000 lavoratori a tempo indeterminato. Nello spazio di due anni, furono assunti al loro posto 10000 precari. La KT come pure diverse banche licenziarono i dipendenti a tempo indeterminato per riassumerli come precari.

 Parte settima: dopo il 1998: il problema principale nel movimento operaio diventa il contrasto tra lavoratori a tempo indeterminato e precari.

Dai tempi della crisi governata dal FMI in poi, la questione dei lavoratori precari incombe sempre di più sul movimento coreano, come pure si evidenzia un antagonismo tra lavoratori impiegati a tempo indeterminato e precari, dal momento che i primi vedono i precari come possibili agenti scardinatori dei loro posti di lavoro sicuri. (Nel 2000 fu fondato un sindacato nazionale di precari, che ora è diventato un sindacato generale intercategoriale con oltre 50000 membri).

Fin dal 1999, uno sciopero nazionale di 4000 tutor delle scuole Jaenung (Hakwon, cioè istituti privati per attività di doposcuola) riuscì a conquistare il diritto alla contrattazione collettiva. Il governo aveva negato che essi fossero lavoratori dipendenti, definendoli invece “liberi professionisti”. Lo sciopero fu importante nel dimostrare che l’organizzazione dei lavoratori precari era possibile, vincendo la resistenza dello stato e degli imprenditori.

Negli anni dal 2000 al 2002, un nuovo scipero alla KT durò per 517 giorni. Subito dopo la sconfitta fu sciolto il sindacato dei precari della KT. I dipendenti a tempo indeterminato della KT erano di solito ostili nei confronti dei lavoratori precari. Dopo lo sciopero la KT assunse personale interinale. Nel 2002 il 49% delle azioni della KT fu venduto ad investitori statunitensi, con la contropartita di un’accresciuta indennità di liquidazione, e vennero pure date azioni ai lavoratori a tempo indeterminato.

Nel 2000-2001, lo sciopero in una fabbrica di condizionatori durò oltre un mese, e fu tradito dai lavoratori a tempo indeterminato, al di là e contro la mobilitazione attiva dei precari.

Comunque un esempio in senso contrario ci viene offerto, nel 2000, dalla grinta organizzativa dei dipendenti dell’hotel Lotte, che ha dimostrato che un sindacato di lavoratori a tempo indeterminato può organizzare in alcune circostanze pure i precari. Dopo una tremenda repressione da parte dei proprietari dell’hotel e l’arresto degli scioperanti, l’hotel accettò di assumere stabilmente i precari con un servizio pari ad almeno due anni.

Durante questi stessi anni, ad ogni modo, il KDLP si spostò a destra, e l’egemonia della fazione NL, centrata sui burocrati della KCTU ed i politicanti del KDLP, ostacolò l’organizzazione dei lavoratori precari. (Nel 2004, la KCTU aiutò persino un amministratore delegato della Hyundai nella sua campagna elettorale da indipendente). La KCTU era parte integrante del neoliberismo, che sosteneva le esternalizzazioni.

Nel 2003, per esempio, i camionisti di Pusan portarono a compimento con successo uno sciopero, ma il governo, gli imprenditori, la KCTU e il KDLP lo sabotarono. Negli stessi anni scoppiò un grande sciopero alla raffineria LG Caltex (ora GS Caltex), ma la KCTU non fece nulla per aiutare gli scioperanti.

Nel 2005 10000 operai precari del settore petrolifero e chimico scioperarono ad Ulsan per 83 giorni rivendicando il miglioramento delle condizioni di lavoro. La complicata struttura delle procedure di assunzione imposta dalle leggi sul lavoro e la strategia delle imprese ostacolarono lo sciopero. Fu creato un “Comitato per l’area di Ulsan” allo scopo di gestire le trattative che includevano capitalisti, amministratori delegati, piccoli imprenditori, organizzazioni non governative e la struttura della KCTU presente ad Ulsan. Un accordo raggiunto si limitò al riconoscimento del sindacato. I lavoratori tornarono a lavorare mentre nel comitato si continuava a “discutere” per sei mesi, discussione che non portò a nulla. Il ritorno al lavoro fu determinato da concessioni arrivate dalle piccole imprese, tuttavia dopo che KCTU e KDLP si ritirarono dalla scena,   nessuna parte dell’accordo fu davvero attuata. Per tutta l’estate del 2005 infuriò alla HMC di Ulsan una battaglia riguardo alla precarizzazione. Un lavoratore si immolò per protesta ed il sindacato rifiutò di collegare la sua morte alle condizioni di lavoro. I precari tentarono di bloccare la linea di montaggio, ma i lavoratori a tempo indeterminato si rifiutarono di collaborare con loro. I dirigenti dell’impresa ed i crumiri rimisero in moto la linea di montaggio mentre i lavoratori a tempo indeterminato se ne stavano in disparte senza far nulla. Tutti i precari coinvolti in questa lotta furono licenziati.

Nel giugno 2006 il sindacato dei metalmeccanici votò per creare un unico sindacato industriale allo scopo di superare la frammentazione dei lavoratori suddivisi tra miriadi di imprese controllate da altre e trattati in base a contratti di lavoro diversi, ma la HMC continuò a negoziare solo con il sindacato interno alla ditta. Molti lavoratori impegnati e militanti si opposero al sindacato industriale di cui sopra, a causa del suo programma corporativo.

Più tardi in quell’estate gli operai precari delle enormi acciaierie Posco di Pohang scioperarono in modo selvaggio e furono sconfitti. Nell’agosto 2007 i precari della Kia Motor Company scioperarono in modo selvaggio ed occuparono parte della fabbrica, dove furono fisicamente attaccati dagli operai a tempo indeterminato della Kia e costretti a rientrare al lavoro.

In uno sviluppo positivo del novembre 2007, i lavoratori col posto fisso ed i precari della Hyundai Motor Company di Ulsan organizzarono per la prima volta insieme un movimento di base.

 Parte ottava: lo sciopero alla E-Land rischiara l’orizzonte sociale.

Lo sciopero alla E-Land che è ancora in corso (al momento in cui scrivo, nel gennaio 2008) è l’ultima ed in qualche modo la più importante lotta tra tutte nel porre la questione del lavoro precario in primo piano nella società sudcoreana.

Nel novembre del 2006 il governo coreano fece approvare un’altra di una serie di leggi riguardanti il lavoro precario definita in modo orwelliano la legge per la protezione dei lavoratori precari. Questa legge è stata costruita allo scopo di dare l’illusione di “far qualcosa” a proposito di una condizione che riguarda oltre il 60% della popolazione attiva coreana. La legge stabilisce che dopo due anni di permanenza sul medesimo posto di lavoro chiunque debba essere automaticamente trasformato in lavoratore a tempo indeterminato. Tale legge è entrata in vigore sette mesi più tardi, il primo luglio 2007, lasciando aperte notevoli scappatoie agli imprenditori che volevano disfarsi dei precari prima della data di entrata in vigore della legge stessa. Alcune imprese rispettarono la legge, ma molte di più non lo fecero e si liberarono dei loro dipendenti precari entro giugno. Questo intero processo si è potuto osservare in modo più chiaro in una catena di grandi magazzini conosciuta come E-Land, con una lotta collegata alla precedente in una catena simile chiamata New Core. La E-Land era nata come una piccola impresa familiare, con un proprietario cristiano fondamentalista, ed era cresciuta fino a diventare un’impresa da 58 miliardi di dollari con 61 punti di vendita in tutto il paese. Essa poi rilevò i negozi della catena francese Carrefour. La società E-Land è stata sempre conosciuta per le sue condizioni di lavoro particolarmente dure, per le lavoratrici (appunto soprattutto donne) precarie con un salario di 800 dollari al mese per una settimana lavorativa di 36 ore, lavoratrici spesso costrette a turni di lavoro di 12 ore senza neanche le pause per andare in bagno. Inoltre la E-Land costringeva tutti i dipendenti, fossero o no cristiani, a frequentare le cappelle presenti nelle diverse sedi. L’amministratore delegato della E-Land versò nel 2006 alla sua chiesa una donazione di 100 milioni di dollari. Appena prima che la nuova legge entrasse in vigore, la E-Land e la New Core licenziarono 1000 dipendenti che nel nuovo regime normativo sarebbero diventati lavoratori a tempo indeterminato.

La risposta immediata fu uno sciopero che ora (gennaio 2008) si trova nel suo settimo mese e che si mantiene saldo. Nei primi giorni dello sciopero, dappertutto in Corea del Sud, migliaia di lavoratori precari di altri settori arrivarono ad aiutare a tener chiusi i negozi E-Land. La KCTU entrò in azione facendo di tutto per soffocare lo sciopero adoperando una retorica stomachevole mentre deviava le energie della base sindacale e dei loro sostenitori in direzione di azioni simboliche senza senso. Il 20 luglio, comunque, 200 dipendenti della E-Land hanno occupato un negozio a Seul e lo hanno chiuso. La risposta del governo fu quella di mandare 7000 tra soldati, poliziotti e criminali prezzolati a scacciare violentemente e ad arrestare 200 persone. Il governo di Noh Moon Yon ormai in via d’esaurimento (molto impopolare e sul punto di chiudere il mandato per il febbraio 2008) ha tratto un gran vantaggio nel condurre la buona riuscita della nuova legge. Ma fu quasi il solo a percepire l’importanza dello sciopero. Molti grandi chaebol vennero in aiuto della E-Land con milioni di dollari di prestiti. La KCTU, da parte sua, promise di prestare ai sindacati della E-Land e della New Core somme considerevoli quando i loro fondi a sostegno dello sciopero si fossero consumati entro la fine dell’estate, ma poi si rimangiò la promessa. La KCTU continuò a premere sulle strutture sindacali presenti in azienda per farle sedere al tavolo di contrattazione mentre la dirigenza della E-Land non offriva alcuna concessione. A Pohang, in novembre, la E-Land tentò persino di aprire un nuovo negozio in cui lavorasse solo personale precario. 500 dipendenti della E-Land ed altri precari non solo bloccarono l’entrata al magazzino, ma attaccarono e disarmarono i poliziotti ed i criminali che lo proteggevano. Azioni simili, compresi blocchi ed occupazioni di magazzini, sono capitate di tanto in tanto per tutto l’autunno.

Forse la cosa più notevole dello sciopero alla E-Land, diversamente da molti altri scioperi precedenti che avevano come argomento principale il lavoro precario, è stata la vasta simpatia ed il sostegno per lo sciopero tra i lavoratori che si trovano nella medesima situazione di precarietà. Un boicottaggio di portata nazionale ha ridotto le vendite del 30% a partire da dicembre, e persino i media hanno dato una copertura generalmente favorevole allo sciopero, almeno nel corso delle prime settimane. Sia che lo sciopero alla E-Land riesca a far riavere i posti di lavoro agli scioperanti sia che non ci riesca, sarà comunque un vittoria per il più vasto movimento dei lavoratori avendo fatto finalmente della precarietà del lavoro nella Corea del Sud una questione che non può più essere ignorata.

Nel dicembre 2007, Lee Myoung Back, candidato del partito di estrema destra Hanaratang (One Nation Party), ha vinto le elezioni presidenziali con un sostegno significativo da parte dei lavoratori, uno sviluppo politico che probabilmente deciderà la sorte dello sciopero alla E-Land, dal momento che il nuovo governo (ora in carica) potrebbe sostenere la dirigenza della E-Land in modo ancora più aperto di quanto ha fatto il governo uscente di centro sinistra, governo ampiamente disprezzato e che ha deluso tante persone. La dirigenza della E-Land continua ad essere aiutata del sostegno finanziario di altri chaebol coreani, mentre gli scioperanti sono stati abbandonati da quasi tutti i loro alleati, KCTU in testa. Il nuovo governo promette una grande offensiva di privatizzazioni e di “riforme liberiste” e dovrà necessariamente dare qualche dispiacere ai suoi sostenitori appartenenti alla classe lavoratrice che avevano espresso più disgusto nei confronti del precedente governo che sostegno nei confronti del nuovo, crogiolandosi nel sogno ozioso che Lee Myoung Back, ex amministratore delegato della Hyundai, avrebbe riportato i giorni di gloria del capitalismo coreano, che finirono venti anni fa. Si sono conosciuti in Corea scioperi perdenti che si trascinano per anni con un nucleo duro in calo mentre la maggior parte degli scioperanti si trova un altro lavoro oppure striscia indietro al vecchio posto. Ma, ancora una volta, grazie allo sciopero alla E-Land, la crisi crescente rappresentata dalla questione del lavoro precario in Corea del Sud non può più essere rinchiusa nel silenzio.

 Seul, Corea del Sud, Marzo 2008

 Bibliografia:

(Ho imparato molto di più in conversazioni e collaborazioni con attivisti coreani ed intellettuali amici della classe operaia per quanto concerne la materia dell’articolo appena concluso di quanto abbia imparato da qualsiasi libro, con l’eccezione del testo di Koo Hagen “Korean Workers” (2001), il solo davvero completo disponibile in una lingua occidentale riguardante la storia della classe lavoratrice coreana. Sono ovviamente piuttosto ostacolato dal fatto di non conoscere la lingua coreana. Quella che segue è una bibliografia sommaria dei lavori che ho trovato utili).

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